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Carceri

Immagine del redattore: Claudio FotiClaudio Foti

I SUICIDI IN CARCERE: ALTRO CHE RIEDUCAZIONE!

24 luglio 2024


Decine e decine di suicidi in carcere dall’inizio dell’anno! Decine e decine di esseri umani, dimenticati nella reclusione, ex bambini trascurati o maltrattati, persone abbandonate in prigione senza altra prospettiva, se non quella di farla finita.

E’ una vera propria strage che per alcuni aspetti assomiglia a quella che avviene nelle carceri dei paesi totalitari, dove i diritti delle persone, e delle persone recluse in particolare, sono quotidianamente calpestati.

Come ha scritto Dacia Maraini il carcere dovrebbe servire al detenuti per riflettere su se stessi e per riprogettare un futuro, non ad alimentare pensieri ed impulsi tesi a distruggere se stessi e addirittura a negare il proprio domani.

I detenuti sono spesso condannati dal sistema carcerario ad una rappresentazione totalmente negativa di sé, senza alcuna speranza di evoluzione. Talvolta questa rappresentazione uccide ogni vissuto positivo, ogni relazione di fiducia.


In un’intervista che ho fatto vent’anni fa a Daniel Goleman, l’autore del best seller sull’intelligenza emotiva aveva affermato che la capacità di gestire le emozioni può essere insegnata ai bambini, ma anche agli adulti. Poi ha aggiunto: “Pensiamo alle persone in prigione: hanno fatto qualcosa in un determinato momento, hanno commesso un crimine e adesso pagheranno magari per il resto della loro vita. Potremmo usare la prigione per insegnare l’intelligenza emotiva, così come possiamo usare le scuole.”

Ma la prospettiva della rieducazione del detenuto, enunciata dai principi costituzionali, viene contraddetta tutti i giorni dalla realtà del carcere. Altro che formazione all’intelligenza emotiva!

Il sistema carcerario è un tempio della stupidità emotiva di una società che parla della funzione rieducativa della pena, ma che in realtà getta miliardi in un istituzione che pensa di favorire il cambiamento delle persone, umiliandole e punendole, spesso in modo sadico, alimentando vissuti distruttivi ed autodistruttivi.

Altro che recupero del colpevole! Il funzionamento reale della prigione spesso procede, nei fatti, in una direzione opposta a quella della rieducazione: non di rado il carcere si rivela università dell’umiliazione, corso di riqualificazione nel crimine e luogo di istigazione al suicidio.



RICICLARE LA SOFFERENZA, NON RIPRODURLA ALL’INFINITO. IL MIO INTERVENTO AL CONGRESSO DI "NESSUNO TOCCHI CAINO"

17 dicembre


Mi sono iscritto a “Nessuno tocchi Caino” senza una motivazione ben precisa.

Ma partecipando al X Congresso di questa associazione, che si è svolto in carcere, ho incontrato una forza morale, culturale e politica che non mi immaginavo e mi ha colpito.

300 partecipanti al congresso di questa associazione che ha tre mila iscritti. Un grande coinvolgimento emotivo. Una grande lucidità di analisi.

Da tempo sono convinto che il dolore traumatico dei bambini e degli adolescenti può trasformarsi in malattia, dissocialità e violenza e la violenza produrrà altra sofferenza alimentando risposte punitive e carcerarie e queste risposte determineranno altro dolore traumatico.

Per fermare questa spirale è fondamentale la cura dei bambini traumatizzati. Di questo da sempre mi sono occupato e tuttora mi occupo. La sofferenza dei bambini traumatizzata può essere riciclata dall’empatia e trasformata in consapevolezza, dignità e speranza.

Ma anche il carcere è un terreno fondamentale per contrastare la riproduzione del ciclo della violenza che attraversa l'intera società. Su questo lavora "Nessuno tocchi Caino".

Il carcere come realtà mostruosa specchio di una società mostruosa, il carcere come luogo che ha ben poco di rieducativo e che svolge nei fatti la funzione di riprodurre malessere e violenza.

Anche in carcere può avvenire un riciclaggio della sofferenza. Le persone, anche i detenuti, anche gli autori di reati tremendi, possono cambiare, purché incontrino un atteggiamento che non sia persecutorio e maturino la consapevolezza del dolore sofferto e del dolore inferto.

Questo cambiamento rende in effetti assurdo e controproducente l’accanimento della pena e della segregazione in carcere.

Segue il mio intervento al congresso di “Nessuno tocchi Caino”. https://www.radioradicale.it/.../x-congresso-di-nessuno...




COME OSSERVARE IN CARCERE LA TRASMISSIONE INTERGENERAZIONALE DELLA VIOLENZA


Giorgio era recluso da cinque anni e mi raccontava un episodio della propria infanzia: “In cascina non avevamo l’acqua calda e il bagno si faceva nella tinozza. L’acqua inizialmente era bollente da ustionarsi… io ero piccolo, tre-quattro anni, cercavo di scappare in tutti i modi e loro mi prendevano e gettavano nella tinozza: che volo! e le sghignazzate che si facevano”. La cosa rilevante era il tono con cui l’episodio veniva raccontato. Mentre mi parlava, il detenuto sghignazzava anche lui, pensando a se stesso bambino, con il medesimo atteggiamento assunto in passato dai familiari che lo scaraventavano nella tinozza e lo dileggiavano. Giorgio aveva staccato la spina della consapevolezza rispetto alla propria esperienza infantile, aveva tagliato qualsiasi contatto partecipe e sensibile con le emozioni che in quel frangente della sua infanzia poteva avere sperimentato: vissuti di terrore, dolore fisico, impotenza, rabbia, umiliazione. Era stato costretto ad identificarsi con i suoi aggressori e ora raccontava la storia dal punto di vista dei vincitori. Il furto di verità subìto non riguardava il ricordo fattuale, ma il vissuto infantile che aveva accompagnato l’esperienza. Aveva perso qualsiasi capacità di identificazione con il bambino fragile e violentato che egli era stato,

non solo nell’episodio della tinozza, ma nel corso dell’intera infanzia. Ma ciò che è dissociato ritorna. Non è un caso che Giorgio si trovasse in carcere, avendo staccato completamente la spina dell’empatia di fronte a un bimbo di 5 anni e avendo commesso un grave abuso ai suoi danni. Il messaggio implicito che gli adulti lanciavano al piccolo Giorgio era: “Questa non è violenza. Questo è il modo con cui i bambini fanno il bagno e questo è il modo giusto con cui i grandi si divertono”. L’episodio della tinozza era paradigmatico delle pesanti esperienze sfavorevoli infantili vissute da Giorgio. Divenuto adulto, non s’era fermato di fronte alla possibilità di divertirsi lui con un bambino e di godere della sofferenza della sua piccola vittima.



ANCHE SU SCOMODE SEGGIOLE

UN’ESPERIENZA DI GRUPPO CON DETENUTI SEX OFFENDERS PRESSO IL CARCERE DELLE VALLETTE

Da “Recuperare i cattivi… Ma noi siamo veramente buoni?” Claudio Foti (a cura di), Sie edizioni, 2015


Il gruppo dei detenuti centrato sull’intelligenza emotiva ha lavorato per circa due anni, con incontri circa quindicinali, favorendo un processo di avvicinamento autentico delle persone a se stesse e agli altri attraverso la connessione, interna ed esterna, prodotta dal lavoro sulle emozioni. Il gruppo è partito con circa 15 partecipanti I partecipanti hanno potuto confrontarsi con le proprie difficoltà ad individuare i vissuti emotivi e a dare loro un nome in un contesto di comprensione reciproca, garantito da una conduzione che ha coerentemente cercato in qualche modo di contrastare - sempre benevolmente - gli attacchi all’interno del gruppo, le squalifiche anche le più sottili e le prese in giro e di favorire, al contrario, un atteggiamento di differenziazione delle soggettività, ma nel contempo di non giudizio.

I detenuti hanno così potuto - embrionalmente, ma significativamente - prendere atto di un analfabetismo emotivo che impoverisce e le relazioni fra le persone, che può condizionare negativamente la comunicazione e che finisce per essere responsabile dell’accumulo di sentimenti inespressi e della conseguente esplosione emotiva e perdita di controllo degli impulsi.

Il giro dei vissuti emotivi è stata una tecnica utilizzata ampiamente per procedere in modo corale nel cammino per avvicinare la testa al cuore, per dare il diritto di cittadinanza alle emozioni. Sono state individuate in un clima di accettazione diverse modalità difensive del gruppo e dei singoli per allontanarsi dai vissuti emotivi più spiacevoli quali la sofferenza, la rabbia, la paura e la tristezza: modalità difensive quali il ragionare, il decantare le proprie virtù, il banalizzare, il distaccarsi al posto di sentire. È stato rilevato come anche la rabbia possa essere una via di fuga rispetto alla percezione della sofferenza.

Sono stati riconosciute alcune sorgenti del disagio della comunicazione in gruppo: la paura di essere giudicati, disprezzati, l’ansia di mostrarsi incapaci e diversi dagli altri.

In alcuni momenti i detenuti hanno potuto portare vissuti profondamente autentici e coinvolgenti: la preoccupazione per il futuro, l’ansia per la mancanza di appoggi e di un posto di lavoro all’uscita del carcere, il senso di colpa per avere arrecato un grande dolore ai familiari, la solitudine, il senso di esclusione e di stigmatizzazione , la frustrazione e l’umiliazione nell’esperienza carceraria, il senso di colpa per il reato. Ha cominciato ad essere affrontato il tema dell’immagine difensiva di durezza, di forza, di mascheramento delle emozioni di fragilità che spesso la figura maschile è obbligata a mostrare.

C’è stato un momento significativo in cui una guardia carceraria ha interrotto il gruppo per chiedere se potevamo accogliere un detenuto che in quei giorni era in crisi ed aveva avuto comportamenti autolesionistici. La richiesta ha creato nei conduttori un iniziale disorientamento, che è stato poi superato con una discussione ed un’elaborazione positiva della richiesta da parte del gruppo che non s’è sentito disturbato dal nuovo inserimento e s’è mostrato accogliente.

La prima attivazione proposta all’interno è stata quella di presentarsi con una qualità positiva, per favorire un clima positivo e l’avvio di un percorso orientato alla mentalizzazione di problematiche autentiche, anche penose e conflittuali . È stata costantemente sottolineata l’ attenzione al valore straordinario della dignità di ciascun soggetto e delle qualità positive esistenti in ciascun partecipante e nella stessa esperienza del gruppo.

Sono state proposti rudimenti di tecniche di Mindfulness e alcuni giochi psicodrammatici associati all’intelligenza emotiva, come per es. giochi di simulazione di esperienze di ascolto e comunicazione a coppie.

Circa una metà del gruppo è rimasta stabile nel tempo. Il gruppo è partito con quindici persone. Alcuni hanno cessato di partecipare, soprattutto a causa di trasferimenti e scarcerazioni. Via via si sono aggiunti nuovi inserimenti. Il gruppo ha suscitato parecchio interesse tra i detenuti che talvolta ne hanno parlato nelle celle: spesso è capitato che diverse persone non inserite nella lista si siano presentate e abbiano chiesto e ottenuto di partecipare al gruppo.

La partecipazione è sempre stata buona, dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Significativa l’esperienza dell’ultimo incontro a cui hanno partecipato tredici detenuti per circa due ore allo stretto in uno stanzino angusto perché non si riusciva ad aprire la stanza della socialità per un problema di lucchetto. In un primo momento l’idea di non poter disporre di uno spazio decente e la necessità di ricorrere a sedili scomodi (in qualche caso delle cassette di plastica) ha sollecitato interventi di protesta e di rabbia verso l’istituzione e verso la condizione carceraria. Poi il gruppo ha abbassato piano

piano i toni della lamentela, , nonostante il fatto che i rumori del corridoio in qualche caso assordanti, si avvertissero maggiormente rispetto alla stanza della socialità. I partecipanti al gruppo quasi senza accorgersene sono stati coinvolti dalle consegne del conduttore e dalla discussione ha preso quota. L’ambiente più raccolto ha finito per favorire in qualche misura un momento ed una dimensione di intimità comunicativa.

Si è cercato di favorire in alcuni passaggi del gruppo un’evoluzione da una modalità “schizoparanoide” di affrontamento dei problemi ad una modalità di “elaborazione depressiva”: un’attivazione particolarmente significativa che ha coinvolto anche il conduttore è stata quella che chiedeva a ciascun partecipante di accennare, ciascuno come se la sentiva, ad un proprio comportamento nobile e ad un proprio comportamento “ignobile”. L’esperienza ha prodotto diversissimi livelli di comunicazione autentica e di chiusura difensiva, ma è stata complessivamente un passaggio maturativo nel gruppo.

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