NON OSO PARLARE A MIA FIGLIA PERCHE' TEMO DI FARE DANNI
- Claudio Foti
- 6 giorni fa
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Sono un’educatrice, madre di una bambina, Giovanna, che all’età di 5 anni è stata a lungo abusata sessualmente da un amico di famiglia. La stiamo curando, ma la psicologa riferisce che la bambina non è ancora riuscita a raccontare quello che è avvenuto, per il senso di vergogna. A Giovanna non oso parlare perché temo di fare danni. So che è mia figlia che deve fare il cammino, ma io vorrei capire come aiutarla. La psicologa mi ha spiegato che c’è una difficoltà di tutti i piccoli abusati a raccontare quello che è successo e che bisogna avere pazienza. Per me non è stato semplice accettare che mia figlia abbia ricevuto una diagnosi di abuso sessuale.
È duro diventare consapevole che l’abuso sessuale, siccome ostacola il racconto del trauma, può essere la forma più distruttiva della violenza sui minori. Sono tormentata dalle domande… Perché è così decisivo che mia figlia riesca a ricordare? Secondo lei cosa posso fare? Come si fa ad accertare un danno? Si può affermare con certezza che l’abuso sessuale sia più dannoso rispetto ad altre forme di esperienza traumatica?
Alessandra
Se una bambina non può parlare del suo trauma con la mamma, il danno è maggiore
Cara Alessandra, comprendo il suo malessere e la sua ansia. Ma non comprendo bene l’intera situazione e non capisco proprio perché lei non sia maggiormente coinvolta nel lavoro con sua figlia.
Mi auguro che lei abbia o possa avere uno spazio di riflessione personale su quanto è successo.
Sua figlia ha bisogno, per attraversare positivamente questa crisi, del dialogo con i suoi familiari e ha bisogno di una mamma che sia in grado di accettare e comprendere l’accaduto e che abbia la possibilità di essere aiutata a governare l’ansia.
Le questioni sono tante. Vorrei innanzitutto precisarle che l’abuso sessuale su una bambina è un’esperienza che risulta traumatica e che va definita, a seconda delle situazioni, nella sua specifica gravità e nei suoi effetti, ma in senso tecnico non è una diagnosi, non esaurisce affatto la conoscenza di un minore, di come funziona la sua mente, delle difficoltà e dei problemi che incontra e, d’altra parte, delle capacità psicologiche che possiede.
Se confondiamo il riconoscimento di un abuso con una diagnosi rischiamo di inchiodare una bambina che sta crescendo ad una valutazione essa stessa stigmatizzante, perché non consente di comprendere il funzionamento psicologico complessivo e le qualità mentali della bambina. Alessandra, si ricordi che l’abuso sessuale di sua figlia, qualsiasi forma abbia avuto, non esaurisce affatto la conoscenza di Giovanna e delle sue risorse per crescere.
Certamente in linea generale l’abuso sessuale è “l’Everest dei traumi” per la seduzione che lo nasconde, per l’inganno che lo avvolge e lo maschera anche agli occhi del bambino, per la confusione a cui si accompagna, per l’attivazione della fantasia e del corpo delle piccole vittime, per gli effetti di complicità, colpa e vergogna che produce. Per questo l’abuso sessuale “fa male, molto male, e per lungo tempo. È un male specifico, pieno di sfaccettature che mancano in altre esperienze sfavorevoli infantili.” (1)
Ma passando dal piano generale al piano concreto è necessario valutare ogni situazione specifica: sostenere che sempre e comunque l’abuso sessuale sia un’esperienza più distruttiva e dannosa rispetto ad altre forme di violenza rischia di diventare un’affermazione ideologica.
Occorre peraltro spostare la messa a fuoco dalla categoria dell’abuso sessuale alla categoria del trauma. E’ utile portare l’attenzione a come ciascun soggetto può aver vissuto una situazione violenta, scombussolante ed imprevedibile e alle modalità con cui ha saputo reagire. Non va considerato solo l’evento esterno, cioè l’abuso, ma anche e soprattutto la ferita psichica subìta dalla vittima.
Trauma deriva dal greco antico e vuol dire appunto ferita. Il concetto di trauma ci invita a riflettere sulla dimensione non solo oggettiva, ma anche soggettiva dell’esperienza vissuta.
Per valutare il danno inferto in una bambina da un evento brusco, estremo, lesivo o da più eventi di questo tipo bisogna ascoltare con un’attenzione partecipe la piccola vittima, la sua personalità precedente al trauma, le modalità con cui ha affrontato l’evento, i suoi vissuti emotivi e la sua storia. Non è stata ancora inventata la classifica per valutare la gravità della sofferenza traumatica, senza prima aprirsi all’accoglienza, all’ascolto e alla conoscenza delle diverse persone.
Lei riferisce un’affermazione della psicologa che sostiene “che c’è una difficoltà di tutti i piccoli abusati a raccontare quello che è successo”. Ora la categoria dei “piccoli abusati”, pur comprensibile per inquadrare il fenomeno, dal punto di vista clinico va relativizzata. Dal punto di vista clinico non esistono i “piccoli abusati”, esistono personcine che vanno comprese, ciascuna nella propria individualità, nelle dinamiche relazionali che le coinvolgono, che vanno ascoltate con empatia e benevolenza, che vanno diagnosticate a partire dalla loro storia particolare e dal loro funzionamento psicologico soggettivo.
Si tratta dunque di considerare caso per caso un’infinità di variabili per accertare il danno e per poter prospettare una cura. Occorre valutare la struttura di personalità precedente l’evento o gli eventi traumatici, le esperienze sfavorevoli eventualmente già presenti prima del trauma, l’età in cui tali eventi si sono registrati, come l’evento traumatico viene inquadrato e vissuto dalla vittima, le risorse cognitive ed emotive, individuali e familiari di cui ciascun sopravvissuto dispone ed altro ancora.
Che l’abuso sessuale sia un fenomeno particolarmente sommerso e particolarmente difficile da mentalizzare e da rivelare, è indubbio. Altrettanto indubbio è che tutti i sopravvissuti a qualsiasi esperienza traumatica subìta mostrano un insopprimibile bisogno di parlare.
Sarà molto liberante e salutare per una bambina come sua figlia riuscire a raccontare anche alla mamma che cosa ha patito e soprattutto, contestualmente, a comunicare le emozioni che ha vissuto nel corso della sua esperienza di vittima, quando si trovava in condizione di impotenza e di isolamento.
«Gli attivisti – scrive van der Kolk – nei primi tempi della campagna di sensibilizzazione per l’AIDS crearono un potente slogan “Silenzio = Morte”. Anche il silenzio sul trauma porta alla morte: la morte dell’anima. Il silenzio rinforza l’isolamento maligno del trauma». (2)
Qualsiasi sia la natura del trauma, qualsiasi sia l’età in cui è stata sperimentata una vittimizzazione, poter raccontare ad altri ciò che si è patito in solitudine, poter mettere in parola le emozioni penose vissute, intense e confusive, favorisce in modo straordinario l’integrazione della mente e il percorso della cura. Ovviamente la narrazione della vittima deve avvenire di fronte a qualcuno che capisce e che sostiene, che accoglie e non giudica.
La componente sessuale della violenza può senza dubbio generare nel soggetto traumatizzato, in forme nocive, vissuti di colpa, autodeprecazione, vergogna, che possono inibire la narrazione degli eventi patiti. Ma tutti i sopravvissuti, e non solo quelli abusati sessualmente, incontrano in maggiore o minore misura ostacoli di varia natura che impediscono loro di ricordare, di rimettere in parola e di rielaborare il trauma.
Le difficoltà della narrazione e dell’elaborazione dell’abuso di una bambina di cinque anni non sono la conseguenza ineluttabile del carattere sessuale del trauma.
I bambini possono superare l’inibizione derivante dal rapporto tra violenza e sessualità che ostacola la loro narrazione in base a diversi fattori non solo individuali, ma anche e soprattutto contestuali, riguardanti la comunicazione terapeutica, familiare, educativa, sociale. In altri termini dipende molto da ciò che succede attorno. Anche la madre può essere determinante e deve essere aiutata in questa prospettiva. Possono essere decisive le interazioni con l’ambiente familiare e con l’ambiente protettivo circostante, perché possono aiutare i bambini a scoprire e a far venir fuori le loro risorse.
L’attivazione della capacità del nucleo familiare di tollerare ciò che è accaduto, dando un nome ai vissuti emotivi intensi sperimentati da tutti i componenti del nucleo, può aiutare efficacemente il bambino a sbloccarsi, a superare le difese che lo portano a censurare informazioni ed emozioni sul trauma patito, temendo magari di andare incontro a giudizi o a colpevolizzazioni.
Alessandra, il suo desiderio di mamma di voler aiutare sua figlia può essere prezioso. La sua preoccupazione di evitare danni è apprezzabile, ma il dialogo madre-figlia, opportunamente sostenuto da uno psicoterapeuta esperto, può essere straordinariamente utile, spesso indispensabile.
(1) Malacrea M. (a cura di), Curare i bambini abusati, Cortina, 2018.
(2) van der Kolk B. (2014), Il corpo accusa il colpo, Cortina, Torino, 2015, p. 265.
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